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Scrivere la storia di Michael Jordan significa trattare della vita di uno degli sportivi più forti di sempre, per molti il miglior cestista di sempre. Nato a Brooklyn, NY, il 17 Febbraio 1963, Jordan è il quarto di cinque fratelli, ma dimostrò fin da piccolo di essere diverso dagli altri, mostrando una particolare dedizione allo sport, nonostante le difficoltà scolastiche.
MJ si dedicò alla vita sportiva fin dagli undici anni, giocando non solo a pallacanestro, ma anche a baseball e football. Nonostante i discreti risultati, abbandonò presto gli altri sport per dedicarsi esclusivamente al basket. Tuttavia, mentre frequentava la Emsley A. Laney High School, arrivò una delle delusioni più forti di quei suoi primi anni, ma che avrebbe forgiato ulteriormente il carattere del ragazzo. Jordan venne infatti escluso dalla prima squadra dell’istituto, nonostante fosse considerato il miglior giocatore delle giovanili. La scelta di coach Clifton Herring fu decretata dal fatto che il roster necessitava l’aggiunta di lunghi, mentre Michael era allora alto meno di 180 cm.
Al quarto anno, cresciuto fino a diventare 190 cm, Jordan riuscì a entrare in prima squadra e nei successivi due anni si rivelò essere la stella della squadra e uno dei migliori giovani americani. Le sue ottime prestazioni lo portarono a essere chiamato al McDonald’s Invitational Tournament, torneo a cui venivano invitati i talenti più in vista delle High Schools. Al termine del suo percorso scolastico, Michael comunicò la sua volontà di giocare per l’University of North Carolina, scelta fra le numerose offerte.
I tre anni universitari furono decisivi per la completa maturazione di MJ. Una figura molto importante fu quella dell’allenatore Dean Smith. Durante quegli anni il coach venne duramente criticato per aver limitato il talento di Jordan, costringendolo ad adattarsi agli schemi della squadra. Lo stesso Michael però, anni dopo, ammetterà che Smith gli fu invece molto utile, aiutandolo a comprendere il gioco e offrendogli gli strumenti per poter segnare quasi 40 punti di media a partita.
L’evento però più memorabile di quel triennio fu al termine del primo anno. Seppur matricola, MJ disputò tutta la stagione in quintetto contribuendo a portare la squadra in finale nel 1982. UNC non vinceva il titolo NCAA da diversi anni e quell’anno si ritrovò di fronte alla Georgetown di Patrick Ewing, altro giovane talento e futura stella dei New York Knicks. Jordan in quella partita realizzò il canestro decisivo per la vittoria del titolo, diventando il vero idolo della tifoseria.
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Al termine del terzo anno decise di lasciare il college con un anno di anticipo e di dichiararsi eleggibile al Draft NBA del 1984. Venne selezionato con la terza scelta assoluta dai Chicago Bulls. La storia di Michael Jordan nel mondo dei professionisti poté finalmente cominciare.
Jordan iniziò a giocare per i Bulls, ma la squadra veniva da anni con diverse sconfitte e un tifo sempre più diffidente. Michael però si rivelò anche tra i professionisti uno dei migliori talenti. Al termine del primo anno trascinò la squadra ai Playoff (eliminati al primo turno), ottenne il premio di Rookie of the year e venne selezionato nel primo quintetto all’All Star Game. Proprio la partita delle stelle diede un ulteriore segnale dell’importanza che Jordan stava acquisendo all’interno della lega.
Molti giocatori, capitanati da Isiah Thomas, decisero di non passargli la palla come forma di protesta per le troppe attenzioni che il giovane stava attirando su di sé. Quell’ammutinamento venne rinominato tra gli addetti ai lavori come the freeze-out. Jordan infatti, oltre alle grandi prestazioni sul campo, stava facendo parlare di sé per alcune dichiarazioni, ma soprattutto per il contratto da 2 milioni di dollari in 5 anni (oltre a una percentuale su ogni scarpa) firmato con la Nike. Quell’accordo diede vita alla linea di scarpe Air Jordan, attiva ancora oggi, e al giocatore diede il soprannome Air.
Nei primi anni NBA, Jordan continuò a giocare grandi partite, come quella a Boston nel 1986 dove, nonostante la sconfitta, il 23 dei Bulls segnò 63 punti. Larry Bird, stella dei Celtics, rilasciò una dichiarazione poi divenuta celebre:
Penso sia semplicemente Dio travestito da Michael Jordan.
Nonostante ciò Chicago non riuscì mai ad arrivare alle Finals, in una lega dominata dai Boston Celtics, Los Angeles Lakers e Detroit Pistons. Queste formazioni avevano al loro interno leggende del basket americano, come il già citato Bird o Magic Johnson, ma questi talenti erano ormai avanti con gli anni e vedevano essi stessi in Michael il loro erede al trono.
Nei primi anni ai Bulls, Jordan riuscì a ridare credibilità alla franchigia che divenne nel giro di poco tempo una delle più ricche. Questo grazie anche al fatto che ad ogni partita casalinga veniva realizzato il tutto esaurito. Se a ciò si somma un’incredibile vendita di magliette e gadget, è così spiegato l’incredibile aumento di valore della squadra che passò da 16 a quasi 120 milioni di dollari.
La svolta la si ebbe al termine della stagione 1988/1989. I Bulls, giunti dopo anni alle finali di conference, dovettero cedere di fronte agli odiati rivali di Detroit, che in quegli anni avevano dato vita alle Jordan Rules (un particolare tipo di difesa molto fisica che consisteva nell’abbattere letteralmente MJ ad ogni suo tentativo di andare a canestro). Quella sconfitta decretò l’allontanamento dell’allenatore Doug Collins e la panchina venne affidata a Phil Jackson. Il nuovo coach decide di rivoluzionare gli schemi offensivi di Chicago, utilizzando l’attacco triangolo di Tex Winter. Insieme ai concetti del nuovo coach, la squadra aveva trovato in Scottie Pippen e Horace Grant degli ottimi giocatori da affiancare a Air Jordan.
Nonostante l’ennesima sconfitta per mano dei Pistons nel 1990, i Bulls stavano diventando la squadra più forte della lega. Infatti nel 1991 arrivò finalmente il primo titolo per Jordan e per Chicago, che in finale si opposero ai Lakers per 4-1. Fu l’inizio di una dinastia. Nelle successive due stagioni la squadra continuò a vincere, arrivando al titolo anche nel 1992 contro Portland e nel 1993 contro Phoenix, realizzando il three-peat. Conquistato il terzo anello, Jordan dichiarò:
Vincere tre titoli di seguito era un mio obiettivo, perché né Thomas, né Magic, né Bird ce l’hanno fatta. Non sto dicendo di essere più forte di loro, ma il fatto che solo io ci sia riuscito vorrà dire qualcosa.
In NBA da nove anni, Jordan si ritrovò, dopo la vittoria del terzo titolo, stanco della continua pressione che da tempo doveva portarsi sulle spalle. In The Last Dance, documentario realizzato da Netflix nel 2020 sul suo ultimo anno ai Bulls, il giocatore ha dichiarato:
Vincere ha un prezzo, e la leadership ha un prezzo. Così ho tirato su le persone quando non volevano essere tirate. Ho sfidato le persone quando non volevano essere sfidate. E mi sono guadagnato questo diritto perché i miei compagni di squadra mi sono venuti dietro. Non hanno sopportato tutte le cose che ho sopportato io.
La storia di Michael Jordan prende una svolta quando alla stanchezza mentale si aggiunse la misteriosa morte del padre, assassinato il 22 Agosto 1993. A seguito di quella notizia, Jordan annunciò il suo ritiro dalla pallacanestro. La notizia fu un vero e proprio shock per gli amanti dello sport di tutto il mondo. I Bulls decisero di ritirare la sua maglia numero 23 e di dedicargli una statua di fronte allo United Center, la nuova arena della squadra.
Nel 1994 Jordan decise di stupire ulteriormente annunciando di voler iniziare la propria carriera nel mondo del baseball, sport amato dal padre. Firmò per i Chicago White Sox, che lo fecero giocare con i Birmingham Barons, terza squadra della franchigia. Giocò successivamente negli Scottsdale Scorpions, salvo poi ritirarsi nel marzo del 1995 a causa dei risultati personali non soddisfacenti.
Due settimane dopo aver annunciato la fine della sua carriera nel baseball, MJ comunicò ai Bulls di voler tornare. Prese il numero 45 e tornò in campo con la canotta dei tori, che l’anno precedente non erano riusciti a vincere il campionato. Nonostante Jordan fece registrare delle buone cifre, il suo ritorno in campo fu condizionato da una condizione fisica non idonea ai ritmi della pallacanestro. La squadra venne eliminata dai Playoff e il titolo andò per il secondo anno consecutivo agli Houston Rockets.
All’inizio della stagione 1995-1996 i Bulls misero insieme un roster spaziale. Oltre ai soliti Jordan e Pippen, la squadra poté contare sulla leadership di Ron Harper, il talento di Toni Kukoc, i tiri da 3 di Steve Kerr, ma soprattutto dei rimbalzi e della difesa di uno dei giocatori più eccentrici di quegli anni: Dennis Rodman. Le premesse vennero rispettate: la stagione regolare vide Chicago vincere ben 72 partite su 82, realizzando un record che sarebbe durato fino al 2016, battuto dai Golden State Warriors allenati proprio da Kerr. La stagione si concluse con la vittoria del titolo ai danni di Seattle, con Jordan che riuscì a vincere il titolo di MVP delle Finals, sommato a quello della stagione regolare e dell’All Star Game.
I record però non erano destinati a finire. Nel 1997 Jordan condusse ad un altro anello la sua squadra, questa volta grazie a una prestazione monumentale in gara-5 contro gli Utah Jazz. MJ realizzò 38 punti, ma la particolarità di quella partita (definita poi flu game) fu quella che il 23 biancorosso giocò nonostante una intossicazione alimentare, causata da una pizza mangiata la sera prima in albergo a Utah.
La stagione 1997/1998 fu la “The last dance” della squadra. Tutti infatti sapevano che Phil Jackson non sarebbe più stato l’allenatore al termine del campionato, che MJ si sarebbe ritirato e che alle diverse stelle non sarebbe stato rinnovato il contratto. Nonostante le vari voci e qualche problema legato agli infortuni, i Bulls riuscirono ad arrivare ancora una volta all’atto conclusivo. Per il secondo anno consecutivo dovettero affrontare gli Utah Jazz, questa volta convinti di poter conquistare l’anello. Dovettero però cedere di fronte all’ultimo capolavoro di Jordan che in gara-6 realizzò The shot, il celebre canestro a 5 secondi dal termine che fissò il punteggio sull’87-86 e diede ai Bulls il loro secondo three-peat. La storia di Michael Jordan con la canotta di Chicago non poté quindi concludersi in un modo migliore.
Jordan realizzò diversi tiri decisivi durante la sua carriera, rilasciando una celebre frase a riguardo:
Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.
Celebre per le sue vittorie con la canotta dei Bulls, la storia di Michael Jordan è ricca di tante altre esperienze. Vediamone alcune:
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